Prua verso Gibilterra, estate 2017. Un naufrago portato in salvo dal catamarano Kaskazi Four, che fa parte della flotta da charter di Equinoxe Yachts, nella traversata atlantica dalle Bahamas alle Isole Eolie, dove continuerà la sua stagione.
Chi va per mare, sia per lavoro sia per piacere, sa che la legge che vige è una sola: quella del mare, appunto. Lo si è potuto constatare a bordo del catamarano Kaskazi Four, protagonista di un salvataggio finito nella cronaca di molte testate.
Durante la traversata atlantica, da ovest a est, per rientrare dalla sua stagione caraibica e proseguire quella estiva in Mediterraneo, nelle isole Eolie, l’equipaggio del catamarano Kaskasi Four ha avvistato un piccolo ketch alla deriva, in evidente difficoltà, nel canale di traffico delle grandi navi, al largo del Portogallo, con ancora 200 miglia di distanza da Gibilterra. Senza pensarci due volte, il comandante Francesco Rinauro e il suo equipaggio si sono avvicinati e, dando prova di massima professionalità e competenza, hanno portato in salvo il naufrago, in stato confusionale, e la sua imbarcazione.
Ecco quello che è successo nelle parole di un membro dell’equipaggio del catamarano Kaskazi Four, che al momento dell’avvistamento si trovava di guardia.
«Era l’alba e, mentre navigavamo con il pilota automatico, stavo guardando l’orizzonte, oltre agli strumenti, perché ci trovavamo nella zona di traffico obbligato per le navi all’ingresso di Gibilterra. Un punto, quindi, molto delicato, con tantissimi cargo e petroliere che entrano ed escono, e dove serve la massima attenzione. A un certo punto ho visto una piccola barca che non era segnalata dagli strumenti, né battuta dal radar e non aveva segnale radio. Ho subito avvertito il pericolo, perché i comandanti delle navi non guardano fuori, ma si basano solo sugli strumenti; inoltre, dal movimento della vela, mi sono resa conto che la barca era fuori controllo e portata alla deriva dalle onde. Allora ho preso in mano il timone e, sotto la mia responsabilità, sono andata a vedere.
Avvicinandomi, ho subito capito che il ketch, di circa 30 piedi, era in difficoltà: ho svegliato tutti e abbiamo provato a metterci in contatto via radio, ma senza risultati. Ci siamo avvicinati a portata di voce e abbiamo scorto un uomo, ma non riuscivamo a capire se fosse privo di sensi o stesse dormendo, perché non ci sentiva nemmeno gridando. Alla fine l’uomo si è scosso ed è uscito: sembrava sotto shock e aveva il salvagente addosso, quindi probabilmente sapeva di essere in una situazione molto critica e immaginava di poter finire in acqua. La vela era stracciata e lui ci ha detto di non avere radio né elettricità e di avere il motore fuori uso. A quel punto gli abbiamo proposto di salire a bordo di Kaskazi, ma lui ci ha chiesto di andare noi sulla sua imbarcazione, il che nelle procedure nautiche è un tema molto importante: cambia tutto, dal punto di vista giuridico, se è il naufrago a chiedere soccorso e se il soccorso è indipendente dalla volontà del naufrago. Per fortuna avevamo a bordo un piccolo canotto del figlio del comandante, per cui Niko – marinaio e skipper croato che fa parte dell’equipaggio – l’ha raggiunto a remi. Niko, essendo molto esperto, ha tentato di far ripartire il motore, ma dopo un paio d’ore di tentativi ha capito che non si poteva fare nulla. In questa situazione, le procedure prevedono la possibilità di abbandonare la barca, ma l’uomo non ha voluto. La decisione da prendere a quel punto non era semplice: chi soccorre una barca in difficoltà è obbligato a soccorrere le vite umane, ma non ha alcun obbligo nei confronti della barca. Il nostro comandante ha deciso di correre il rischio e, nonostante il vento a 27 nodi, l’onda al traverso, le navi e anche una balena sopraggiunta, abbiamo assicurato il ketch a Kaskazi. Una situazione pericolosa, quindi, oltre che per la vita delle persone a bordo della piccola imbarcazione, anche per entrambe le barche, che si potevano danneggiare, ma Kaskazi Four è un catamarano nuovo, ben attrezzato, e avevamo a disposizione una cima di tonneggio molto lunga per assicurarlo senza correre il rischio di collisione.
Nel frattempo Niko è stato raggiunto da Renato, il nostro secondo, per dare sicurezza all’uomo che comunque non era nelle condizioni di trasbordare sulla nostra barca con quell’onda. Iniziato il traino, abbiamo contattato la Capitaneria, il Soccorso e la Polizia marittima di Portimao; siamo stati anche in contatto radio e con telefono satellitare con un medico. Inoltre, per fortuna, avevamo un infermiere a bordo che ha dato qualche supporto per capire come stava l’uomo, che in barca non aveva né acqua né cibo e non sapevamo da quanto tempo non mangiasse né bevesse.
Dopo 13 ore, a mezzanotte circa siamo arrivati a Portimao, dove abbiamo lasciato l’uomo ai medici e alla Polizia. Lui e la barca sono rimasti lì, mentre noi il giorno dopo siamo ripartiti, perché il catamarano Kaskazi Four aveva in programma dei charter nelle Eolie e non avevamo quindi molto tempo per fermarci.
Quell’uomo non lo abbiamo più visto, se non quando è stato portato a terra dai medici, ma sembrava fosse assente e non ci riconoscesse. È stata un’immagine molto toccante: la parte marinaresca, per quanto difficile e complessa, con il senno di poi è stata la più facile, grazie soprattutto alla competenza che c’era a bordo, perché siamo tutti professionisti con numerosi “oceani alle spalle”. Abbiamo sempre tenuto sotto controllo la meteo: c’era vento ed era previsto che aumentasse, quindi abbiamo scelto una rotta che ci portasse in luoghi più sicuri.
Noi speriamo che un giorno quest’uomo ci dia sue notizie, senza essere troppo disturbato dai giornali.»
La sicurezza e l’esperienza prima di tutto, quindi. Come ha dimostrato tutto l’equipaggio del catamarano Kaskazi Four con questo salvataggio e come ricorda lo stesso Niko:
«Trovo sia normale comportarsi così quando si incrocia una barca in difficoltà. Non è stato facile, certo: quando sono arrivato a bordo del ketch era pieno di acqua e il motore, nonostante i molti sforzi, era impossibile da riparare in mezzo al mare. L’uomo, inoltre, aveva paura ed era confuso, parlava con persone che non c’erano. A tratti mi sono anche spaventato, ma quando è arrivato Renato a darmi una mano è andata meglio.»
Un’esperienza molto forte ma a lieto fine, come conclude il comandante Francesco Rinauro.
«Il mare a volte sa essere molto duro, quindi, ogni volta che vedi un’altra barca in difficoltà pensi che avresti potuto trovarti tu in quella situazione. Senza esitare, allora, fai il possibile per aiutare, mettendoti nei panni di chi sta affrontando le conseguenze di una vita avventurosa.
Anche a terra dovremmo fare così, ma in generale si è meno altruisti.
Quando capita di poter aiutare, lo si fa con il cuore e dopo ci si sente come angeli mandati in soccorso di chi aveva bisogno. Ecco così ci siamo sentiti tutti noi a bordo: degli angeli.
L’amarezza di non aver potuto abbracciare il naufrago, però, me la porto ancora dentro.
Photo credits: Maria Parga/Kaskazi Four